Vivere e insegnare l'avventura dell'amore
Formazione dell'affettività. Imparare ad amare per essere in sintonia con Dio, con gli altri e con il mondo. Avere una bussola per amare. Capitolo del libro Amare e insegnare ad amare.
Paul O'Callaghan, esperto in teologia e antropologia, approfondisce l'arte di amare e di saper aspettare per vivere felicemente e rispondere pienamente, sia nel celibato che nella vita matrimoniale. Descrive un'affettività sana che sa dare un nome a ciò che sente.
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Indice degli argomenti
2. Alcune difficoltà nell'arte di amare
4. Dinamica della gratificazione ritardata
5. Educare a godere dell'avventura dell'amore
- Il ricorso alla preghiera
- Condividere ciò che riceviamo da Dio
- Sforzo positivo o combattimento spirituale
- Saper aspettare per saper amare
Tutti vogliono essere amati. L’essere apprezzati e amati dagli altri
riempie il cuore di compiacimento, pace, felicità, coraggio, grandi
desideri, energia, benessere. L’essere amato trova una profonda
risonanza nello spirito umano. Colui che è amato si sente riconosciuto,
stimato, dignificato, rispettato, con una
identità
consolidata.
Ma non tutti sono disposti ad amare, ad amare in modo efficace,
sacrificato, perseverante e generoso. Amati, sì, tutti; ma amare, non
così tanto! E lì cominciano i problemi. Perché se le persone amano di
meno perché non sono amate a loro volta, i potenziali destinatari di
quell’amore si sentiranno meno amati, forse delusi. . . e quindi meno
disposti a corrispondere a ciò che hanno ricevuto. Si tratta di una
specie di “circolo vizioso” con cui si finisce per amare sempre
meno.
Per il cristiano, lo sappiamo bene, l’amore per il prossimo non è
opzionale. È semplicemente essenziale per la sua vita. È il comandamento
del Signore. Al punto che, senza di esso, non è possibile dire che si
ama Dio (cfr. 1 Gv 4,20). In effetti, la persona che non ama, che non si
dona generosamente, non conosce veramente Dio, e non lo conoscerà mai
perché, come dice San Giovanni, «Dio è Amore» (1 Gv 4,8.16).
Chi non sa amare non entrerà mai nella “frequenza” del Dio di Gesù
Cristo; non ci sarà alcuna connessione, non ci sarà, come si suol dire,
feeling, sentimento. E il problema è questo: se l’amore non “decolla”
nella vita di una persona, prima o poi entrerà in questo “circolo
vizioso” segnato dall’individualismo, dall’isolamento e dalla tristezza.
In qualche modo si può dire che chi non ama muore, o almeno muore in
parte: diventa come uno zombi, assente, sbalordito, stordito, ridotto
nella sua umanità.
I filosofi stoici, che fiorirono durante i tre secoli che precedettero
l’epoca di Cristo, lottarono positivamente per convincere la gente a non
amare e, ancora di più, a non cercare di essere amati. Si sono resi
conto di un dato di fatto: che l’amore produce spesso noia e sofferenza
(soprattutto quando viene rifiutato). E l’uomo, che vuole essere felice,
non dovrebbe cercare la sofferenza. Al contrario! Però così finisce per
non amare. Nei confronti della vita cerca d’eliminare le passioni, per
produrre ciò che gli stoici chiamavano apatheia, indifferenza verso il
mondo e verso gli altri. Tuttavia, l’amare non si limita alla pura
donazione, alla generosità senza ulteriori indugi.
Chi ama vuole necessariamente ricevere, essere riconosciuto,
apprezzato, amato. Vuole essere ben voluto. Persino Dio stesso cerca la
risposta dell’uomo quando lo crea e lo salva. In lingua latina ci sono
due parole diverse per esprimere questa idea: amare e redamare, amare ed
essere amati. Sarebbe impossibile per l’uomo vivere e amare senza essere
amato, dare senza ricevere, impegnarsi senza essere riconosciuto. Siamo
fatti così; riceviamo più di quanto diamo. Il cristiano che sa di essere
una creatura di Dio lo apprezza perfettamente.
Il problema comincia comunque quando le persone non sono disposte a
rispettare i tempi e la realtà concreta dell’amore, e pretendono di
essere riconosciuti e amati immediatamente, senza soluzione di
continuità, senza aspettare. Cercano una gratificazione immediata per il
loro “investimento” affettivo. Ecco perché il desiderio di essere amato
e riconosciuto dagli altri, d’altra parte naturale, ha bisogno di essere
educato o disciplinato. Se le persone cercano di ricevere un bonus
grande il prima possibile. . . prima o poi vedranno come le relazioni
con gli altri si deterioreranno.
Prima si diventa incapace di amare chi ha bisogno, colui che in quel
momento non è in grado di rispondere o semplicemente non vuole
rispondere. E poi smetteranno di amare gli altri completamente. Avranno
cura solo delle amicizie che interessano, saranno facilmente offesi,
smetteranno rapidamente di donarsi agli altri, diventeranno perennemente
infelici e infedeli, incolperanno gli altri.
Per i cristiani sarebbe particolarmente grave se si verificasse questo
fenomeno. Se il
cristiano non è capace di amare con maturità
e perseveranza, senza ricevere continuamente gratificazioni che possono
legittimamente essere pretese solo da bambini o da malati, perderanno il
sale e la luce, la capacità di rendere visibile l’amore generoso e
paziente di Dio, presente nel cuore con la virtù infusa della carità.
Ameranno esclusivamente alcune persone. . . soltanto coloro a cui sono
sicuri di piacere e che li ricompenseranno immediatamente per i loro
sforzi. Gli episodi biblici che parlano del
maltrattamento che Gesù Cristo ha promesso ai suoi – ad esempio, quando
ha detto che bisogna porgere l’altra guancia (cfr. Mt 5,39) – potrebbero
essere interpretati come segni di debolezza, di poca forza umana. Ma in
realtà sono un chiaro segno di fortezza in persone capaci di sopportare
pazientemente la sofferenza, l’incomprensione, il dolore, la premiazione
differita. Diranno: «Il Signore è il mio pastore; non manco di nulla»
(Sal 23,1). In effetti, al cristiano viene chiesto di avere una pelle
spessa o dura, almeno occasionalmente.
Vediamo così che la chiave dell’amore risiede nella capacità di gestire
bene la dinamica della gratificazione immediata, e in particolare, di
come differirla. Negli anni ’60 il prof. Walter Mischel, della Stanford
University degli Stati Uniti, ha fatto un esperimento che è diventato
noto, il cosiddetto “esperimento marshmallow”. Mischel diede questi
dolci morbidi e gommosi, molto apprezzati dai piccoli, a un gruppo di
bambini separatamente, tutti di quattro anni circa. Lasciò poi davanti a
loro un altro dolce, spiegando che avrebbero potuto prenderlo se
volevano ma che se avessero aspettato 20 minuti senza prenderlo, ne
avrebbero ricevuti altri due. Il dilemma per i bambini era notevole:
prendere subito le caramelle, o aspettare per averne di più?
Molti riuscirono ad aspettare, altri no. Lo stesso professore Mischel
seguì queste persone per molti anni e scoprì che quelli che erano
riusciti ad aspettare alla tenera età di quattro anni, riuscirono poi ad
aspettare anche più tardi godendo di una vita più fortunata: un lavoro
meglio pagato, un matrimonio più stabile, più amici e interessi, meno
problemi con l’alcol, la droga e la sessualità.
E non dovrebbe sorprendere che le cose siano così: in effetti, coloro
che sanno vivere senza cercare la gratificazione che è loro dovuta
sapranno come gestire la vita in modo migliore, sapranno investire con
saggezza i loro talenti e le loro energie, aspettando risultati
migliori.
Al contrario, le persone che non sanno come differire la gratificazione
che corrisponde alle loro azioni finiscono per avere problemi e
difficoltà in molti campi, in particolare quelli che si riferiscono ai
sensi, alle passioni, alla sensibilità umana, agli affetti, ai
sentimenti. Spesso si trovano trascinati dai capricci delle loro
inclinazioni e desideri, che vanno e vengono, che sorgono e scompaiono,
si intensificano e poi svaniscono. Non sono veramente liberi – anche se
hanno la sensazione passeggera di esserlo –, ma più o meno schiavi,
dipendenti. Non sono felici, o meglio, lo sono di tanto in tanto, in
modo effimero. . . La verità è che non trovano soddisfazioni profonde e
durature.
È quasi inevitabile che in determinate circostanze queste persone
cerchino “compensazioni” narcisistiche e insensibili di ogni tipo:
sessuale, abuso di sostanze, maltrattamento di persone, ecc.
La domanda è questa: come convincere la gente a sapere “investire”
generosamente e con costanza nella vita delle altre persone, amando
sinceramente e fedelmente? Anche se hanno l’impressione (temporanea) di
«sprecare il loro aroma nell’aria del deserto»[1], come dice il poeta inglese Thomas Gray. In inglese si dice spesso
“forgive and forget”, cioè “è conveniente perdonare e poi dimenticare”.
Ma forse quello che va al cuore della questione è poter dire “give and
forget”, cioè “conviene dare e poi dimenticare”. . . : amare
generosamente, magnanimamente, senza cercare di dettare i tempi e le
modalità della risposta che è desiderata e vogliamo che venga
soddisfatta. Così le parole di San Giovanni della Croce, «dove non c’è
amore, metti amore e otterrai l’amore»[2].
Quelli che non contano troppo il costo dell’amore, quelli che si danno
a titolo gratuito, non dominati dal piacere immediato di essere amati ma
dai reali bisogni di coloro che li circondano, saranno ricompensati al
di là di tutti i loro sogni. Ma ciò si farà nei tempi di Dio, quando Dio
vorrà e come Dio vorrà. Bisogna imparare a lasciare andare le redini
dell’amore, smettere di cercare di calcolare gli atti e gli effetti.
Colui che premia è Dio, anche attraverso altre persone. Questa è
l’avventura dell’amore!
Due testi della Sacra Scrittura, tra gli altri, parlano di questa
dinamica. Per prima, nel Salmo 127,5-6, al seminatore viene detto:
«Chi semina con lacrime mieterà nella gioia». E poi: «Nell’andare, se
va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con
gioia, portando i suoi covoni».
Il seminatore soffre e piange sperimentando e ricordando il lavoro
faticoso di dover spargere il seme. Non vede il frutto, il risultato.
Piuttosto lo aspetta. Il seme muore; non esiste più. Sembra scomparire
sulla terra. Ma i mesi passano, arrivano le piogge, il freddo e il sole.
I semi nascosti sotto la terra densa, dura e scura cominciano a
germogliare, a cercare la luce.
A poco a poco appare sul campo una sfumatura verde, appena
percettibile, che parla di speranza. E poi arriva il frutto maturo,
nutriente, abbondante. . . E ora, dopo mesi di attesa, il seminatore,
colui che aveva pianto e sofferto, canta, ride, gode dell’abbondanza del
raccolto. Questa è la vita della persona che ama e sa aspettare, senza
certezze, senza garanzie. . . ma gode del suo amore più di chiunque
altro.
L’altro testo rappresenta una promessa del Signore, che dice:
«Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre,
o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in
eredità la vita eterna» (Mt 19,29). È lo stesso messaggio: chi ama in
modo sacrificato riceverà una grande ricompensa da Dio, in questa vita e
nella vita eterna. Quello del “cento per uno” appare di nuovo in un
testo lucano che parla, come nel Salmo, della messe:
«Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte
cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la
mangiarono. . . Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e
fruttò cento volte tanto» (Lc 8,5.8).
Di fatto, l’intero messaggio morale del Nuovo Testamento si concentra
sulla promessa futura che premia lo sforzo attuale dei discepoli di
Cristo. «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno
fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,4-6). Tutte
le beatitudini esprimono lo sforzo, il dolore attuale, vissuto nei
confronti del futuro premio. Come abbiamo visto, la Sacra Scrittura non
fa altro che promuovere quella che ora chiamiamo una dinamica di
gratificazione differita.
E che cosa possono fare le persone per acquisire l’abitudine di amare
disinteressatamente? Come educare per godersi l’avventura dell’amore?
Ecco sei suggerimenti.
Il primo: l’importanza di iniziare e perseverare nella preghiera. Dio dà la sua grazia quando vuole, e con essa dà anche una
straordinaria capacità di amare “alla maniera divina”, chiamata
“carità”. Ma Dio ci chiede lo sforzo di pregare, mentalmente e
vocalmente, anche se abbiamo l’impressione di perdere tempo e pensiamo
che la nostra preghiera sia inutile, perché nella preghiera si tratta di
scoprire non solo la vicinanza e il conforto e la luce di Dio, ma anche
la sua alterità, la sua distanza e quindi anche il bisogno di
abbandonarci a Lui con fede, senza avere la sicurezza che i nostri sensi
– il tatto, l’udito, la vista. . . – ci danno.
Nella preghiera si impara a rinunciare al controllo della nostra
situazione e della nostra vita. Ci scopriamo nelle mani di Dio, mani
forti e paterne, mani gentili, ma non nostre mani.
In secondo luogo, noi cristiani siamo convinti che tutto,
davvero tutto, ciò che abbiamo a nostra disposizione,
l’abbiamo ricevuto da Dio. Tutto, talenti e abilità, di natura e
di grazia, sono interamente frutto della donazione divina, anche se
l’abbiamo ricevuto attraverso altre persone in diversi momenti della
vita, anche se l’abbiamo fatto nostro (perché nulla di ciò che abbiamo a
disposizione è interamente nostro), anche se l’abbiamo a nostra
disposizione.
Per questo motivo, quando offriamo alle altre persone ciò che abbiamo,
cioè quando amiamo generosamente, non ha senso congratularci con noi
stessi per la nostra apparente magnanimità. Piuttosto l’amore di Dio,
che ci riempie con i suoi doni, ci spinge, ci costringe quasi, ad amare,
a dare generosamente, senza sentirci tristi quando non siamo
riconosciuti ed apprezzati.
Quando il Signore comincia ad insegnare ai discepoli ad andare a due a
due per preparare il cammino, come racconta l’evangelista Matteo nel
capitolo 10, sembra togliere piuttosto che dare loro qualcosa, pone gli
ostacoli piuttosto che dare aiuto: «Non procuratevi oro né argento né
denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né
sandali, né bastone» (Mt 10,9s.). E lo fa con un’espressione che va al
cuore stesso del Vangelo, dice: «Gratuitamente avete ricevuto,
gratuitamente date» (Mt 10,8).
Avevano ricevuto tutto per puro dono. . . perciò dovevano dare tutto
senza mettere alcun tipo di intralcio, senza pensare di fare un grande
favore a Dio o all’umanità. Lo stesso atteggiamento si trova altrove nel
Vangelo quando il Signore invita i discepoli a rispondere: «Siamo servi
inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). In molte
occasioni la semplicità e la spontaneità con cui i credenti amano gli
altri, li perdona, gli vuole bene, li protegge, li difende, parla bene
di loro. . . li porterà a riconoscere che c’è qualcosa di speciale,
forse qualcosa di divino nella loro vita, qualcosa di invisibile, una
generosità che esce dal normale, il «profumo di Cristo» (2 Cor
2,15).
In questo modo si può comprendere l’enigmatica esortazione di Gesù:
«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le
vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt
5,16). Vedendo le buone opere dei cristiani, vissute con generosità, gli
altri possono percepire qualcosa di più, qualcosa che va oltre le forze
della creatura, e dire, “Qui c’è Dio”, e rendono gloria “al Padre vostro
che è nei cieli”. Sant’Agostino ha osservato con la consueta acutezza:
«Chi non dona [agli altri] è ingrato verso Colui che lo ha riempito con
i suoi doni»[3].
Il cristiano è convinto che la possibilità di dare con generosità agli
altri è un grande privilegio che Dio ha reso possibile nella sua vita.
In termini oggettivi, questa donazione, più che altro, è un atto di
accoglienza, di ricezione, perché diamo agli altri ciò che in primo
luogo ci ha dato Dio e ce l’ha dato per loro. Si pensa all’uomo ricco
del Vangelo le cui terre hanno portato molto frutto (cfr. Lc 12,16-20),
egli conserva tutto per sé, senza condividere, chiudendo il suo cuore:
«Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e
vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni». E dice a se stesso: «Anima
mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia,
bevi e divèrtiti!».
I beni che abbiamo a nostra disposizione per fatica o per fortuna non
sono nostri, ma appartengono a Dio e sono destinati agli altri. In
questo senso, il cristiano ama, si dona, con un cuore riconoscente, con
uno spirito eucaristico, felice di arricchire l’altro pur non vedendo i
risultati, felice perché «accumula tesori in cielo» (Mt 6,20), sicuro
nella fede che ha nelle parole del Signore, perché il «Padre tuo, che
vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6).
Il terzo suggerimento è il perdono. Qui la vita del cristiano
raggiunge il suo punto più alto. Dio, ricco di misericordia, perdona
l’uomo che, pur essendo una creatura, e solo una creatura, si ribella
contro il suo Creatore. Dio potrebbe schiacciare il peccatore,
eliminarlo senza ulteriori indugi. Può sembrare la cosa più giusta, la
più appropriata. Dio sta sul punto di farlo in diversi momenti della
storia della salvezza. Ma non lo fa. Non condanna il peccatore pentito.
Lo perdona, e lo perdona con tutto il cuore, infondendo in lui la
propria vita, fino a renderlo suo figlio, figlio per grazia, e quindi
erede eterno. «Dio perdona tutto e perdona sempre», ripete spesso Papa
Francesco.
E questo straordinario modo di agire di Dio ci spinge, nonostante il
desiderio di vendetta che può sorgere nel cuore umano, a perdonare gli
altri con tutto il cuore, «settanta volte sette» (Mt 18,22). Senza
questa disposizione di fondo da parte del cristiano, il Signore ci
ricorda che Dio potrebbe andare così lontano da negarci il suo perdono.
«Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno,
perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le
vostre colpe» (Mc 11,25).
E questo sforzo di perdonare, di dimenticare, di trascurare un po’, di
non esagerare i difetti di altre persone, per trattare bene tutti,
qualunque cosa facciano. . . plasma come poche cose il cuore dell’uomo,
lo fa crescere, lo rende capace di amare. L’amor proprio che in molte
persone si gonfia in modo sproporzionato, viene ridimensionato,
debitamente ordinato, situato al suo posto. L’amore proprio acquista una
misura ragionevole. . . e le altre persone sono amate, se possibile, con
un amore più grande dell’amore naturale che si ha per se stessi.
Il perdonare non è un segno di debolezza. . . anzi, è segno di
grandezza. Prima di tutto perché il cristiano crede che Dio premierà (o
punirà) le opere buone (o cattive) degli altri. . . e non vuole prendere
il posto di Dio in un atto di tale peso. E inoltre perché richiede un
grande autocontrollo per evitare che il desiderio di vendetta distorca
il processo e finisca per danneggiare l’altro al di là del male che ha
inflitto.
Il quarto suggerimento viene dato dalla vita ascetica, il
combattimento spirituale. È conveniente che noi uomini trattiamo noi stessi con una certa
fermezza, durezza si potrebbe quasi dire, con intolleranza (non verso
gli altri, si capisce, ma con i propri capricci). Così nel mangiare, nel
bere, nel dormire, in relazione all’ intrattenimento, il comfort, la
vista. . . Sono piccole cose, ma ripetute e frequenti, che plasmano il
carattere giorno dopo giorno, rafforzano le virtù, indirizzano la
volontà per non lasciare che i disagi della vita possano sminuire o
amareggiare l’amore, disagi a volte causati dalla gratificazione
differita, però disagi che non influenzano troppo le decisioni, non
distorcono il giudizio, non tolgono la libertà, non paralizzano
l’amore.
Madre Teresa di Calcutta ha espresso la sua esperienza: «Ho scoperto il
paradosso, che se ami fino a quando non fa male, non c’è dolore, perché
c’è solo più amore». Chi ama è capace di soffrire, di sopportare,
soprattutto di soffrire per gli altri, in modo che non debbano soffrire
così tanto. Così Gesù, poco prima di essere portato alla morte, disse ai
suoi carnefici davanti ai discepoli: «Vi ho detto: sono io. Se dunque
cercate me, lasciate che questi se ne vadano» (Gv 18,8).
Quinto suggerimento, ciò che abbiamo appena detto vale in
particolar modo per la castità, virtù che regola il desiderio
sessuale delle persone, che li rende capaci di amare veramente, senza
cercare una gratificazione sensuale immediata, disposti ad aspettare, a
rispettare i tempi dell’amore.
È sorprendente notare che il filosofo ateo Max Horkheimer, della Scuola
di Francoforte, si mostrava favorevole all’enciclica del Beato Papa
Paolo VI, Humanae Vitae (1968), in cui si ripete l’insegnamento
cristiano sull’illiceità della contraccezione.
In un’intervista nel 1970 gli è stato chiesto: «Non è la pillola
[contraccettiva] un segno di progresso, tenendo conto del terzo mondo,
dei problemi di sovrappopolazione?». E Horkheimer rispose: «Il mio
dovere è quello di ricordare alle persone il prezzo che devono ‘pagare’
per questo processo. Il prezzo da pagare è l’accelerazione della perdita
di nostalgia, la nostalgia della persona amata. La dimensione sessuale è
sempre presente. Però quanto più grande è la nostalgia dell’unione con
la persona amata, più grande diventa l’amore»[4].
Qui si situa il dilemma. Chi non vive la castità, chi ha fretta di
godere della gratificazione che viene dall’amore, finirà col non amare.
Il vero amore, d’altra parte, sa molto delle attese, della nostalgia,
dei tempi lunghi, dei desideri, dei sospiri. Chi si arrende al godimento
immediato e sensibile normalmente associato all’amore umano, finirà per
conoscere molto poco dell’amore; rimarrà con un cuore piccolo,
schiavizzato e narcisistico. Peggio ancora: finirà per conoscere poco
della persona che pensa di amare.
E questa dinamica si verifica con ogni tipo di mancanza sessuale: la
pornografia, la prostituzione, la masturbazione, la fornicazione, l’adulterio, i
rapporti
omosessuali, l’uso dei contraccettivi. . . In tutte queste situazioni si smette di
amare la persona, facendo di essa un oggetto al servizio
dell’auto-gratificazione, strumentalizzandola egoisticamente, amandola
come una cosa inanimata.
Si presenta sempre la stessa dinamica, la stessa incapacità impaziente
di aspettare, di rispettare i tempi, di accettare i ritmi del corpo
umano, della materia, della vita. Forse è per questo che c’è qualcosa di
gnostico in tutte le colpe contro la castità, qualcosa che va contro la
materia, il tempo, il corpo, qualcosa che nega la risurrezione della
carne. Come disse Tertulliano a proposito dei gnostici, «Nessuno vive
così tanto secondo la carne ma chi nega la risurrezione della carne»[5].
Un poeta inglese del Cinquecento, Francis Davison, riassunse quella
situazione con l’espressione «absence makes the heart grow fonder»,
(l’assenza rende il cuore più affettuoso): l’assenza, cioè, la
nostalgia, la separazione dalla persona cara, aumenta l’affetto del
cuore. Chi sa aspettare, chi sa rispettare le dinamiche del proprio
corpo e dell’altro, ha tutte le possibilità di raggiungere l’amore. Chi
cede immediatamente alla ricerca della gratificazione immediata, si
svuota, diventa amaro, perduto, incapace di amare.
Sesto e ultimo suggerimento. “Ha tutte le possibilità di
raggiungere l’amore”, abbiamo appena detto. Perché è anche vero che
chiunque aspetta, e aspetta e aspetta. . . potrebbe non trovare mai la
ricompensa del suo amore.
Coloro che amano, necessariamente vogliono essere amati, aspettano
sempre la loro ricompensa, venga quando venga. E se si deve aspettare
troppo a lungo, se non si riesce a suscitare la risposta degli altri, la
persona potrebbe perdere ogni speranza di essere amato. Il percorso di
negazione, di sacrificio, di rinuncia, non è necessariamente un percorso
di realizzazione; con una vita così, una persona può diventare amara,
solitaria o decisamente egoista se non sperimenta l’amore.
È vero che Dio non smette di premiare coloro che si sforzano di amare
altruisticamente. Ma dobbiamo anche pensare all’importanza del fatto che
ci sono persone nella società che semplicemente amano, amano coloro che
non sono sempre facili da amare, coloro che si tende a “scartare”, come
spesso dice Papa Francesco: gli anziani, i bambini non ancora nati, i
malati, i poveri, i brutti, i tossicodipendenti, coloro che conducono
una vita disordinata, che non sanno corrispondere. . .
Per questo forse ci vuole una speciale chiamata di Dio, che dà alle
persone una capacità speciale di amare, liberamente, tutti gli uomini.
Dante parlava nel Paradiso de «l’amor che move il sole e l’altre
stelle»[6]. Dopotutto, Dio è
quell’amore. . . ma gli uomini che hanno imparato ad amare sapranno fare
qualcosa di simile, “muovere il sole e tutte le stelle”. . . e ancora di
più, perché con Dio arricchiranno la vita degli uomini con un amore più
grande. Si tratta in effetti di un’avventura d’amore che non finisce
mai.
[1] T. GRAY, Elegy Written in a
Country Churchyard.
[2] GIOVANNI DEllA CROCE, Lettera del
6 luglio 1591.
[3] AGOSTINO, Sermone 260, 2.
[4] M. HORKHEIMER, La nostalgia del
totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1994, 87s.
[5] TERTUllIANO, De resurrectione,
11, 1.
[6] DANTE, Paradiso, Canto XXXIII,
145.
1. Amare ed essere amato
2. Alcune difficoltà nell'avventura dell'amore
3. La chiave dell'amore
4. Una dinamica di gratificazione differita nel vero amore
5. Educare per godere l'avventura dell'amore
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